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L’origine ‘fondamentale’ del tempo

Mettiamo nel giusto ordine le seguenti frasi: un uomo muore, più tardi si sposa e finalmente nasce. Grazie al nostro senso della percezione del tempo, si tratta di un gioco da ragazzi: “la morte segue sempre la nascita” e non accade mai il contrario. Tuttavia, ad un livello più fondamentale, il problema sull’origine del tempo rimane ancora un mistero.

È uno dei problemi più profondi della scienza di frontiera”, spiega Nima Arkani-Hamed, un fisico teorico dell’Institute of Advanced Studies (IAS) a Princeton. “Che cos’è il tempo? Da dove proviene? Non è nemmeno chiaro se queste parole abbiano, o meno, un senso. A stento riusciamo a pensare a un mondo, o alla stessa fisica, senza tempo”. Confusi da ciò che implicherebbe l’assenza stessa del tempo, c’è però una sempre più crescente evidenza che al livello più fondamentale della realtà il tempo sia davvero una mera illusione. Cosa ancora più strana è il fatto che alcuni test di laboratorio, realizzati con il laser, e certi progressi nell’ambito della teoria delle stringhe, quel quadro matematico secondo cui le particelle sono composte da stringhe vibranti di energia, portino indipendentemente all’idea che in definitiva il tempo non esiste.

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Più di un secolo fa, la nostra idea di tempo e spazio era molto meno complicata. I fisici seguivano il moto degli oggetti rispetto ad un sistema di riferimento fisso, indicato dalle tre dimensioni spaziali, e segnavano la loro velocità sulla base di un singolo orologio, una sorta di “cronometro di dio” che essi credevano misurasse il tempo allo stesso modo, non importa il luogo in cui ci si trova nel cosmo. Ben presto, però, agli inizi del XX secolo, questa idea venne ribaltata da due rivoluzioni scientifiche. Con la prima rivoluzione, la teoria della relatività mise insieme lo spazio e il tempo in un sistema “elastico” quadridimensionale. Questo nuovo concetto, che Einstein chiamò “continuo spaziotemporale”, sosteneva che tale sistema poteva “piegarsi” attorno ad oggetti massivi creando una curvatura del “tessuto” dello spaziotempo.

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In questo modo, gli oggetti più piccoli possono rotolare lungo seguendo linee curve verso gli oggetti di massa più grande, grazie alla loro maggiore attrazione gravitazionale. In questa nuova teoria dell’Universo, il tempo non era più a lungo uno “spettatore immutabile” bensì una vera e propria dimensione interconnessa con lo spazio. Anziché essere quella dimensione non ambigua da prendersi come riferimento assoluto, ora il tempo diventava relativo. Dunque, la teoria della relatività di Einstein mostrò che gli orologi avrebbero segnato il tempo con un ritmo diverso in funzione del loro moto nello spazio e della posizione rispetto agli oggetti più massivi, che li attraggono a causa dell’azione esercitata dalla gravità.

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La seconda rivoluzione, invece, che introdusse una nuova visione del tempo fu la meccanica quantistica, la fisica che descrive il mondo degli atomi. La teoria dei quanti suggerì ben presto che su scale molto piccole, la realtà diventava alquanto strana e bizzarra. Ad esempio, due particelle possono diventare “correlate” (via entanglement quantistico) in modo tale che esse agiscono in tandem. In altre parole, un esperimento che viene eseguito su una particella influenzerà immediatamente l’altra, non importa quanto esse siano distanti. Dunque, le particelle distanti “comunicano istantaneamente”, un fatto che apparentemente viola non solo la regola in base alla quale nulla può viaggiare più veloce della luce ma anche lo stesso concetto di tempo.

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Il vero “problema del tempo”, così come è diventato poi noto, emerse negli anni ’60 quando i fisici tentarono di conciliare la meccanica quantistica, che governa le leggi fisiche del microcosmo, e la relatività generale, la teoria del macrocosmo. La ricerca di una “teoria del tutto”, che permetta di descrivere le leggi fisiche degli oggetti su tutte le scale, era già in atto. Una delle ipotesi più famose, sebbene controverse, emerse da due fisici del New Jersey: John Wheeler della Princeton University e Bryce DeWitt dell’IAS. Wheeler e DeWitt cercarono di descrivere l’intero Universo con la meccanica quantistica, cioè tentarono di applicare leggi della fisica del microcosmo ai pianeti, alle stelle, alle galassie e alle strutture cosmiche. “Molti fisici si domandarono se il loro approccio funzionasse, dato che non c’era stata alcuna evidenza che suggeriva il contrario”, dice Marco Genovese, un fisico quantistico presso l’ Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica (INRIM) a Torino. Tuttavia, sembrava ragionevole almeno provare ad unificare la matematica delle due teorie per vedere che cosa accade. Quando i due fisici provarono a combinare le equazioni di Einstein con quelle della meccanica quantistica, essi si trovarono di fronte ad una sorpresa: i due insiemi di leggi fisiche mostravano indipendentemente il tempo come una variabile rispetto alla quale evolvevano gli eventi. Ma quando le due teorie erano combinate per produrne una, la variabile del tempo veniva letteralmente cancellata dalle equazioni matematiche. Gli scienziati avevano derivato una nuova equazione che descriveva come si comportava l’Universo e non c’era più una quantità nella loro formulazione matematica che potesse essere utilizzata per indicare lo scorrere del tempo. “L’equazione di Wheeler-DeWitt dice che l’Universo è stazionario e nulla evolve nel tempo”, fa notare Genovese. “Ma, naturalmente, tutti noi percepiamo lo scorrere del tempo”. Questa conclusione fu chiaramente errata. Ad ogni modo, i fisici non trovarono niente di sbagliato nel percorso matematico che era stato intrapreso da Wheeler e DeWitt. Per prima cosa, sembrava che essi avevano erroneamente ritenuto che l’intero cosmo potesse essere descritto in termini delle leggi del mondo dei quanti. Ma ci fu un’altra possibilità intrigante, proposta negli anni ’80 da Don Page ora all’University of Alberta, in Canada e da William Wooters del Williams College a Williamstown, nel Massachusetts. Page e Wooters decisero di applicare questo concetto dibattuto assumendo che l’intero Universo potesse essere trattato come una sorta di “oggetto quantistico gigantesco” soggetto cioè alle stesse leggi fisiche delle particelle subatomiche. Essi immaginarono di suddividere il cosmo in due “sezioni”. Dato che in questo modello dovevano prevalere le leggi della fisica quantistica, queste due sezioni sarebbero state “correlate” via entanglement. Di fatto, gli scienziati hanno trovato che due particelle connesse mediante entanglement quantistico possono avere valori uguali ma opposti: ad esempio, se una particella ruota in senso orario, l’altra ruoterà in senso anti-orario così che le loro proprietà si cancellano quando vengono sommate. Page e Wooters affermarono che allo stesso modo ogni sezione del loro cosmo poteva evolvere indipendentemente, ma dato che tali sezioni erano correlate dall’entanglement quantistico, qualsiasi cambiamento che accadeva in una sezione sarebbe stato controbilanciato nell’altra sezione. Ad un osservatore all’interno di una delle due sezioni il tempo appariva trascorrere, ma ad un osservatore esterno l’intero cosmo sarebbe apparso statico. Mentre Page e Wooters avevano proposto un quadro teorico, basato appunto sull’entanglement quantistico, sembrava che non ci fosse alcun modo di confermare o smentire la loro idea sul fatto che il loro cosmo sarebbe apparso stazionario a qualcuno che vi entrasse dall’esterno.

Nel 2013, Genovese e colleghi realizzarono un esperimento per verificare se, almeno in laboratorio, fosse possibile creare un modello di universo in miniatura costituito da due particelle di luce (fotoni) generate da un laser. Lo scopo dell’esperimento era quello di provare che è possibile creare una situazione in cui un sistema quantistico appare immutabile quando viene osservato dall’esterno, mentre quando viene analizzato dall’interno sembra evolvere. Per realizzare l’esperimento, Genovese e colleghi dovevano monitorare la polarizzazione dei fotoni, che indica la direzione lungo la quale essi oscillano. Se una particella polarizzata viene fatta ruotare con una velocità costante, allora la sua posizione può essere utilizzata in qualsiasi momento per segnare gli intervalli di tempo, un po’ come la lancetta dei secondi di un orologio. I ricercatori hanno così “correlato” i due fotoni in modo tale che le loro polarizzazioni seguano due tratti opposti: ad esempio, se la polarizzazione di una particella viene misurata in direzione “su e giù” quella dell’altra vibra nella direzione “destra a sinistra”. Dunque, per mettere in moto i loro fotoni “indicatori del tempo”, i ricercatori hanno fatto passare le due particelle attraverso delle piastre di quarzo in modo da causare la rotazione della loro polarizzazione. È stato osservato che la rotazione della polarizzazione è correlata col tempo trascorso all’interno delle piastre di quarzo, il che dà una misura del passaggio del tempo. I fisici hanno ripetuto diverse volte l’esperimento, fermandosi in ogni test in un momento diverso per misurare la polarizzazione di uno dei due fotoni. “Nel momento in cui misuriamo il primo ‘fotone-orologio’ diventiamo ‘correlati’ con la particella”, dice Genovese. “Ciò significa che siamo divenuti parte di quell’universo e possiamo monitorare l’evoluzione del secondo fotone rispetto al nostro fotone-orologio”. Armati di questa capacità, il team ha poi confermato che un fotone sembra modificarsi quando viene misurato rispetto al suo partner, allo stesso modo con cui Page e Wooters ritenevano che una parte del loro universo potesse essere osservata evolvere se misurata rispetto all’altra sezione del cosmo. Ad ogni modo, Genovese deve ancora confermare la seconda parte della sua ipotesi: in altre parole, che quando l’intero sistema correlato mediante entanglement quantistico viene osservato nel suo insieme, e dall’esterno, esso appare statico. In questa parte dell’esperimento, il team ha assunto la posizione di una sorta di “super osservatore” che sta al di fuori dell’universo. Questo osservatore esterno non sarà mai in grado di osservare il singolo stato dei due fotoni perché facendo così diventerebbe correlato con loro e perciò sarebbe un osservatore interno. Invece, l’osservatore può misurare lo stato congiunto dei due fotoni. Il team ha eseguito il test molte volte, fermando l’esperimento in punti differenti e osservando i due fotoni come un sistema unico per cui è stato possibile misurare la polarizzazione totale. In ogni test, i ricercatori si sono accertati che i due fotoni correlati per via dell’entanglement quantistico fossero polarizzati in modo eguale ma opposto. Non importa quanto tempo trascorreva perchè i due fotoni si trovavano sempre esattamente in una sorta di “abbraccio quantistico”. Insomma, quel mini-universo appariva statico e completamente immutabile per un osservatore esterno. Perciò, il cosiddetto “problema del tempo”, scoperto da Wheeler e DeWitt, può essere risolto se si assume che il tempo sia una sorta di “artefatto” creato dall’entanglement quantistico.

Nel corso degli ultimi decenni, un certo favore a supporto della natura illusoria del tempo è emerso dalla teoria delle stringhe, formulata negli anni ’60 per spiegare l’interazione nucleare forte che lega le particelle elementari all’interno dei nucleoni e degli atomi. Man mano che essa veniva studiata sempre più in dettaglio, i fisici proposero l’idea secondo cui le particelle subatomiche fossero in definitiva composte da minuscole stringhe vibranti di energia. Questo nuovo modo di percepire i mattoni fondamentali della natura ebbe una serie di conseguenze importanti. Si trovò, infatti, che la teoria delle stringhe poteva essere alquanto utile per quelli che come Wheeler e DeWitt avevano tentato di unificare le leggi della meccanica quantistica con quelle della relatività generale. Questa unificazione si rendeva necessaria per spiegare come appariva l’Universo subito dopo il Big Bang, quando cioè tutta la materia era compressa in un volume infinitamente piccolo. Non solo, ma una teoria unificata avrebbe inoltre permesso di rivelare ciò che accade nei buchi neri. Prima della scoperta della teoria delle stringhe, i fisici si trovarono di fronte ad enormi problemi quando tentavano di combinare le equazioni della relatività generale con quelle della meccanica quantistica. La matematica risultante da questo processo di combinazione suggeriva che punti infinitamente piccoli nello spazio che ci circonda avrebbero contenuto quantità infinitamente grandi di energia: in altre parole, ciò significava che siamo circondati da buchi neri da ogni direzione, il che non è vero. La teoria delle stringhe superò questo problema assumendo che nulla può essere più piccolo delle dimensioni di una stringa, implicando che le equazioni della teoria non si sarebbero mai preoccupate di quelle regioni dello spazio che sarebbero state più piccole di questo limite fondamentale, eliminando così la matematica complessa e le sue predizioni di energie infinite o di altre situazioni impossibili. Con la teoria delle stringhe, sembrò che la fisica del microcosmo e del macrocosmo potevano coesistere davvero, almeno una volta che la teoria delle stringhe venne affinata. Inoltre, il problema della dimensione della stringa sollevò nuove domande sulla natura dello spazio e, a sua volta, del tempo. Questo perché la teoria afferma che nessun esperimento, non importa quanto esso sia elaborato, sarà mai in grado di mostrarci ciò che accade su scale di lunghezza più piccole della dimensione della stringa. “Ciò che succede su scale di lunghezza molto piccole è un concetto mal posto”, spiega il teorico delle stringhe Nathan Seiberg dell’IAS. “Forse lo spazio esiste ancora, ma non possiamo misurarlo, oppure molto probabilmente non c’è assolutamente niente che possiamo misurare”. Questo vuol dire semplicemente che lo spazio potrebbe non esistere al di sotto di un certo limite. Poiché Einstein ha già dimostrato con la sua teoria che il tempo è proprio un’altra dimensione, come lo spazio, allora “se lo spazio diventa ambiguo, anche il tempo deve essere altrettanto ambiguo”, dice Seiberg. “La gente spesso chiede: ‘Che cosa accadde prima del Big Bang?’ Ma ciò che vediamo è che nel momento in cui ebbe inizio l’Universo, la nozione di tempo cessa di esistere”. Quando si ha a che fare con gli “ingredienti cosmici”, l’entanglement quantistico diventa più fondamentale dello spazio e del tempo. “Questo tipo di ambiguità diede ai teorici delle stringhe il primo sentore sul fatto che il tempo potrebbe non esistere ad un livello fondamentale”, nota Seiberg. La nostra esperienza del tempo potrebbe essere costruita a partire dai mattoni fondamentali, un po’ come la temperatura che emerge dal moto collettivo degli atomi. Un singolo atomo non ha una temperatura. Il concetto di caldo o freddo ha solamente significato quando si misura la velocità media di un grande numero di atomi: particelle che si muovono velocemente hanno una temperatura più elevata e viceversa. Allo stesso modo, potrebbero esistere dei “granelli fondamentali” che insieme generano la nostra esperienza di tempo. Che cosa poi siano quei “granelli” è una domanda che non ha ancora una risposta.

Cosa ancora più strana è che alcuni recenti progressi nell’ambito della teoria delle stringhe suggeriscono che i “semi cosmici” da cui ha origine il tempo sono, per così dire, “seminati” nelle parti più estreme della realtà. Questa idea fonda le sue radici in uno strano modello che descrive un ipotetico universo formulato verso la fine degli anni ’90 dal fisico teorico Juan Maldacena dell’IAS, all’epoca alla Harvard University dove studiava le relazioni matematiche che avrebbero permesso di conciliare la meccanica quantistica con la relatività generale. Egli allora decise che questa conciliazione tra le due teorie era possibile se si utilizzavano le stringhe. Il cosmo immaginario di Maldacena ha la forma di una “zuppiera” le cui pareti sono infinitamente distanti. All’interno di questa “zuppiera-universo”, egli considera stringhe e buchi neri il cui comportamento è governato dalla gravità, mentre sulla superficie esistono le particelle subatomiche ordinarie che interagiscono attraverso le leggi della meccanica quantistica. Sebbene la “zuppiera-universo” di Maldacena non appare molto simile al nostro Universo, il suo modello lo aiutò a visualizzare come le leggi più profonde della natura potevano essere in qualche modo correlate. In questo modello, la relatività generale “vive” nell’immenso spazio tridimensionale all’interno della “zuppiera-universo” mentre la meccanica quantistica governa il comportamento delle particelle che si muovono sulla superficie bidimensionale. L’intuizione di Maldacena fu quella di considerare che i due insiemi di leggi fisiche fossero in qualche modo equivalenti, dove gli eventi di natura gravitazionale all’interno della “zuppiera-universo” corrispondessero ai processi quantistici sulla sua superficie, come una sorta di ombra proiettata sulle pareti della zuppiera. Utilizzando questo modello matematico, Maldacena trovò che per ogni processo quantistico che si ha sulla superficie del suo “universo-zuppiera” si ha un evento equivalente al suo interno. Alcuni modelli teorici sviluppati da Maldacena e da altri teorici indicano che le particelle correlate per entanglement quantistico sulla superficie della “zuppiera-universo” possono “comunicare” le loro azioni attraverso tunnel o “wormholes” nelle regioni più interne di questo particolare “universo-zuppiera”. Tutto ciò suggerisce che sia proprio l’entanglement quantistico a rappresentare quel processo cosmico fondamentale che genera le proprietà emergenti dello spazio e del tempo.

Inoltre, l’idea che lo spazio e il tempo siano creati dall’entanglement quantistico è stata indipendentemente esplorata dal teorico delle stringhe Mark van Raamsdonk dell’University of British Columbia in Canada, che ha studiato lo stesso modello a zuppiera di Maldacena. Il modello matematico proposto da van Raamsdonk suggerisce che nel momento in cui l’entanglement quantistico sulle particelle inizia gradualmente a esaurirsi sulla superficie della “zuppiera-universo”, anche il tessuto dello spaziotempo all’interno della “zuppiera-universo” inizia a disintegrarsi. Ciò implica che l’entanglement quantistico gioca in qualche modo un ruolo importante nel connettere insieme lo spazio e il tempo, senza il quale il tessuto stesso dello spaziotempo non potrebbe esistere. Il modello di Maldacena fornisce un supporto maggiore al fatto che l’entanglement quantistico è più fondamentale dello spazio e del tempo quando si ha a che fare con gli “ingredienti cosmici”. Dunque, la conclusione è che non solo il tempo non esiste al livello più fondamentale della realtà ma è la fisica moderna a suggerire che il tempo è una mera illusione. “La mia intuizione è che occorrerà più di una riformulazione della fisica quantistica, servirà una vera e propria svolta. Dunque, solo il tempo ci dirà quale sarà la vera rivoluzione”, conclude Seiberg.

Nautilus: In Search of Time’s Origin

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Originally published at astronomicamens.wordpress.com on September 10, 2015.

 


 

 

 

 

 

 

   
 

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